Massimiliano Carbone
Ringraziamo Liliana Esposito Carbone, madre di Massimiliano Carbone, che ci ha fornito queste foto e ci ha consentito di pubblicarle sul sito della nostra Associazione
La storia di Massimiliano Carbone
di Liliana Esposito Carbone
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La scandalosa lezione di Liliana
Fonte: “Io parlo, donne ribelli in terra di ‘ndrangheta” di Francesca Chirico
A Locri molti pensano, e qualcuno dice, che il lutto l’abbia fatta impazzire. La foto del figlio appesa, come una sfida, perennemente al collo, le iniziative plateali e l’irrispettosa vis polemica contro ministri, prefetti e magistrati, le citazioni di Brecht e Ceronetti e il sarcasmo dolente. Tutto, in Calabria, congiura contro Liliana Esposito Carbone, maestra elementare in pensione e madre di tre figli che ha voluto portare con sé il giorno in cui, nel 1989 in piazza dei Martiri, ha espresso solidarietà ad Angela Casella. Il maggiore, Massimiliano, da otto anni sorride da una lapide del cimitero di Locri dove una folta colonia di gatti, insediata tra cappelle e vecchie tombe, saluta Liliana ogni mattina. A Locri è rimasto ferito Massimiliano Carbone, di 30 anni. L’uomo è stato raggiunto al bacino e al basso torace da un colpo di fucile calibro 12. Anche lui è ricoverato nell’ospedale di Locri in prognosi riservata. Secondo quanto si è appreso, comunque, non sarebbe in pericolo di vita16.
Massimiliano Carbone muore dopo una lunga operazione e sei giorni di coma farmacologico, il 24 settembre 2004. Trent’anni, presidente della cooperativa sociale Arcobaleno multiservices, il ragazzo di Locri, la sera del 17 settembre, sta rientrando a casa con il fratello Davide da un partita di calcetto. Ad aspettarlo, appoggiato al muro di recinzione che circonda il condominio di via Traversa Campo Sportivo, dove vive con la famiglia, c’è un fucile. Un solo sparo lo agguanta al fianco, quand’è già nel cortile di casa, vicino ai vasi di gerani che mamma Liliana, pensando alle indagini, userà per coprire il sangue del figlio, non si sa mai possa servire. In quelle stesse ore a Bianco hanno gambizzato il nipote del boss di Africo, Giuseppe Morabito Tiradrittu, e l’ospedale di Locri è già mobilitato: Massimiliano sarà sottoposto a un lungo intervento per fermare l’emorragia interna che rischia di ucciderlo, ma lo sforzo dei sanitari si rivelerà inutile. «Per le sorti delle indagini ha avuto anche la sfortuna di non morire subito», ripete con amarezza da anni la madre. I pallini calibro 12 saranno trovati e repertati due settimane dopo gli spari. Partono lentamente le indagini sull’omicidio Carbone («I primi giorni», confesserà anni dopo un magistrato alla donna, «sono stati completamente sprecati») e sembrano non voler mai prendere quota. Nonostante, con il suo ultimo filo di fiato, sia stato lo stesso Massimiliano a svelare l’esistenza di una possibile, mastodontica causale: «Ma’, varditi ’u figghiolu», ha sussurrato a Liliana, affidandole il compito di vegliare sul bambino. Sul suo bambino.
Massimiliano è padre da cinque anni, ma non può dirlo in giro. La madre è una donna sposata e il loro figlio sta crescendo in casa di lei. Chiama «papà» suo marito. Anche senza la morte violenta del ragazzo, insomma, questa resterebbe una storia difficile e sofferta. Da maneggiare con cura. Ora, però, il colpo di fucile del 17 settembre l’ha trascinata fuori dalla sfera privata delle passioni per trasformarla in pista investigativa. Liliana Carbone non ha dubbi. Ad ammazzare Massimiliano è stato l’amore. E di fronte ai Carabinieri, insieme con il marito e i figli Davide e Irene, ricostruisce da subito tutte le tappe di una tormentata relazione nata nel 1998, costellata dagli ammonimenti e dalle minacce del marito tradito e culminata, nel 1999, nella nascita del bambino. La paternità di Massimiliano verrà sacrificata alla tranquillità familiare scelta dalla donna; la verità, benchè negata, non diventerà meno ingombrante però con lo scorrere del tempo. Anzi. Per Massimiliano quel figlio spiato ogni giorno all’uscita dell’asilo è diventato un pensiero doloroso. Negli ultimi tempi gli si è pure affacciata l’idea di rivendicare la sua identità e il suo ruolo di padre. Sarà ammazzato prima.
Il procedimento penale nr.1965/04, aperto presso la Procura di Locri dopo l’omicidio di Massimiliano Carbone, ha un andamento schizofrenico: parte piano, accelera a due anni dall’omicidio e poi si ferma, archiviato. Il nome del possibile mandante è indicato fin dalle prime annotazioni dei Carabinieri della Compagnia di Locri17, ma mancano robusti elementi di prova. Quelli che ci sono, li ha portati Liliana. Agli investigatori dell’Arma ha consegnato, nell’aprile 2005, un test di paternità firmato dal direttore del laboratorio Genoma di Roma. La maestra si è improvvisata detective: ha raccolto con un cotton fioc il sangue del figlio negli interstizi delle mattonelle del cortile, ha repertato «fortunosamente e senza violare la privacy del bambino» un fazzoletto gettato dal piccolo in un cestino, ha mandato, per la comparazione, anche il tampone salivare del papà. di Massimiliano. Il risultato lascia pochi spazi a dubbi: il giovane ammazzato è al 99,999% il padre del bimbo. Movente enorme, quindi. Ma il resto stenta a prendere forma, anche perché l’indagato ha un alibi di ferro, non sono disposte intercettazioni e non vengono realizzati accertamenti balistici. Quando, dopo l’omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale Franco Fortugno, assassinato a Locri il 16 ottobre 2005, assiste alla discesa in campo dei reparti investigativi di mezza Italia, Liliana Esposito Carbone pensa, amaramente, che suo figlio è stato una vittima di serie B, esattamente come tutti gli altri morti ammazzati della Locride prima di quel delitto «eccellente». Come Gianluca Congiusta, il giovane commerciante di Siderno ucciso il 24 maggio 2005, come Renato Vettrice, l’operaio di Bovalino scomparso il 13 agosto 2005 da Sant’Ilario dello Jonio: «In quei giorni arrivò l’intelligence, a Locri; 13 mesi prima, per un ragazzo ferito a morte sotto casa nessun intervento del Ris di Messina, mentre il fratello Davide, scioccato e coperto di sangue, veniva riportato giù dall’Ospedale e strattonato e intimidito da minacce di accuse di favoreggiamento… pallini di calibro 12 ritrovati 14 giorni dopo, tra le piante e sul suo sangue, una perizia balistica effettuata dopo 22 mesi, nessun interrogatorio degli indiziati, intercettazioni partite dopo 25 mesi»18.
È amareggiata e arrabbiata Liliana. Anche Massimiliano Carbone era un ragazzo di Locri, come quelli che sono scesi in piazza, all’indomani dell’omicidio Fortugno, contro la violenza ’ndranghetista, e non vuole che venga dimenticato. «Che ho fatto? Nulla di folle, di teatrale, di eroico, di meritorio… non ho finalizzato le mie parole, i miei comportamenti, le mie iniziative ad altro che potesse non commemorare mio figlio, per lui invocando giustizia, a tutela della preziosissima eredità che ha lasciato. E poi la comunità tutta chiedeva verità e legalità e giustizia e sicurezza, la garanzia imprescindibile per un benessere esistenziale comune». Liliana Esposito Carbone si piazza davanti al tribunale di Locri la mattina del 29 giugno 2006. Le lezioni alla scuola «De Amicis», dove insegna da più di trent’anni che «la Bellezza va cercata ad ogni attimo, perché davvero esiste: i libri, l’armonia, la solidarietà e la memoria», sono ormai finite. Fa caldo. Ha con sé un ventaglio, una bottiglia d’acqua e la foto incorniciata di Massimiliano presa dal tavolo del soggiorno. Sono trascorsi 17 anni dalla protesta, in quegli stessi luoghi, di Angela Casella. «Lei cercava un figlio vivo, misurava le parole, seguita ogni momento dall’attenzione di sue amiche arrivate a Locri con lei, e i Carabinieri discreti stavano un po’ distanti, alcuni sindaci le porgevano omaggi». Per la madre calabrese si registra meno affettuosa solidarietà, anche se non mancheranno attestati, importanti, di vicinanza. «So quanto è grande il suo cuore di madre, che soffre due volte, ieri per il sangue versato, oggi per fatica nell’avere giustizia. Le sono vicino. E insieme, le chiedo di essere tenace e fiduciosa nonostante tutto», le scrive padre Giancarlo Maria Bregantini, vescovo della diocesi di Locri-Gerace. Sono di più quelli che fingono di non vedere, o che cambiano marciapiede, pur di non incrociare la maestra Carbone che, con quella sua fissazione per la verità, sta diventando un petulante, sfacciato, elemento di turbativa sociale per chi non vuole vedere e sentire. C’è qualcuno, però, che la teme più di altri. Alla vigilia del secondo anniversario dell’omicidio del figlio viene avvicinata e minacciata all’interno del cimitero di Locri19, nei pressi della tomba di Massimiliano. Le intercettazioni sui telefoni dell’indagato e della moglie20 cominciano solo ora, a due anni dall’omicidio e in conseguenza delle minacce a Liliana. Forse anche per questo i proclami e le classifiche dei morti che si succedono, alla vigilia del primo anniversario dell’omicidio Fortugno, la irritano. Avverte lo slancio e la speranza dei giovani, ma anche l’ipocrisia e la retorica delle istituzioni. Prende carta e penna, e al presidente del Consiglio Romano Prodi, atteso a Locri per la commemorazione, indirizza un breve messaggio intriso d’amarezza e sarcasmo.
Mario Congiusta, padre di Gianluca, ucciso a Siderno 17 mesi fa, la invita a portare un fiore sulle tombe dei nostri figli; sarei d’accordo, se non ritenessi eccessiva pena per lei quella di dare compito al suo portaborse di comprare fiori per i tanti morti ammazzati di Calabria, «terra prediletta». A me, mamma di Massimiliano Carbone, ucciso 2 anni e 10 giorni fa a Locri, basterebbe il più piccolo dei suoi pensieri pieni di bonomia. Almeno questo, considerato che da un bel pezzo vacilla quella «fede» raccomandataci personalmente dal signor Loiero il 7 luglio a palazzo Nieddu. Mario Congiusta, io stessa e tutti quanti attendiamo verità e giustizia, non soltanto promesse, ma concretate nei fatti, portiamo fieri, come la più alta delle onorificenze, la memoria dei nostri figli, i nostri «onorevoli figli».
La lettera crea scompiglio, viene ripresa da quotidiani nazionali e televisioni, catapulta Liliana e la storia di Massimiliano Carbone al centro dell’attenzione dei mass media. «Non immaginavo la diffusione eclatante, io sono così pratica… Sembrò, come dice Ceronetti, “ustione senza l’urlo del contatto”: erano tanti che avrebbero voluto dirle loro, quelle cose». Ma le risposte non arrivano. La strada verso la verità, anzi, si fa sempre più tribolata. Nonostante il risultato del test del Genoma, infatti, va in porto il tentativo della difesa della donna di differire lo spettro dell’accertata paternità, insinuando possibili rapporti anche con altri componenti della famiglia Carbone: l’autorità giudiziaria dispone la riesumazione del corpo di Massimiliano per effettuare il test del Dna. Il 5 aprile 2007 il cimitero di Locri è off-limits. Liliana assiste alle operazioni in silenzio. Si fa forza pensando che quest’ennesima violenza servirà ad appurare, una volta per tutte, la verità. Di certo quella biologica: il bambino, garantisce anche il Dna, è il figlio di Massimiliano Carbone. Abbastanza per adire le vie del Tribunale dei minori al quale Liliana si è rivolta per vedere riconosciuti i propri diritti di nonna. Per rispettare l’ultima volontà sussurrata dal figlio: «Varditi ’u figghiolu». Non abbastanza, secondo i magistrati della Procura di Locri, per indicare i responsabili dell’omicidio di Massimiliano. Nell’ottobre 2007 l’inchiesta viene archiviata e il nuovo sit-in di Liliana davanti al tribunale di Locri non sposta la pietra momentaneamente messa sopra le indagini. La delusione, però, non spegnerà il desiderio di verità e giustizia della maestra di Locri21. «Io porto alta la memoria di mio figlio come la più preziosa delle onorificenze e il suo viso nella foto sul mio petto, dovunque, sempre, perché sia sua la “parola” che produca lo scandalo necessario a far capire che tante cose devono cambiare, o gli occhi bassi e le bocche chiuse porteranno per sempre disgrazia a questa terra».Ansa, 18 settembre 2004, 00:18.
In data 3 maggio 2005 il Norm di Locri riassumendo l’esito delle indagini indica in Vincenzo Martelli (52 anni), marito della donna con cui Massimiliano aveva intrattenuta una relazione, il possibile mandante dell’omicidio. Gli esecutori sarebbero stati due uomini vicini al clan Cordì.
Nella denuncia per minacce e ingiurie presentata il 18 settembre 2006 nei confronti di Vincenzo Martelli dichiara che quest’ultimo le avrebbe testualmente detto: «Mi hai rotto i c…ni […] La prossima volta ammazzo pure te».
Il 25 ottobre 2006 cominciano le intercettazioni sulle utenze di Vincenzo Martelli e della moglie Giuditta Napoli.
La battaglia di Liliana Carbone è ricostruita in P. Bottero, S. Russo Senza Targa, Sabbiarossa, Reggio Calabria, 2012; G. Trimarchi, Calabria ribelle, Città del Sole, Reggio Calabria, 2012 e nel documentario Oltre l’inverno di Massimiliano Ferraina, Raffaella Cosentino e Claudia Di Lullo.
Ringraziamenti
La mia gratitudine a tutte le donne di Io parlo.
Grazie a Marianna Rombolà per avermi concesso di riaprire un cassetto doloroso e a Graziella Carbone che l’ha reso possibile. A Teresa Cordopatri e Angelica Rago, per l’accoglienza affettuosa nel loro salotto e nei loro ricordi. All’amica Liliana Esposito Carbone, per la «scandalosa» lezione di tenacia e dolente sarcasmo. A Deborah Cartisano, per quel sentiero di speranza tra le pietre più dure. A Stefania Grasso e Maria Teresa Morano per le battaglie di ieri e di oggi. E ad Anna Maria Scarfò che, parlando, si è ripresa la vita.
Un pensiero alle donne che non ho conosciuto, e di cui ho provato, con tutto il riguardo di cui sono capace, a immaginare la voce. Chiedo scusa per le note stonate prodotte nel tentativo.
Grazie ai miei primi, spietati lettori: lo scrupoloso Eduardo Meligrana e l’attenta Romina Arena. A chi ha atteso, bacchettando: Alessio Magro. A chi ha atteso, incoraggiando: Anita Griso e Cristina Riso. A chi ha atteso, concedendo tempo e fiducia: Alessandro Zardetto. A chi crede nella forza delle parole: Michele Prestipino.
Alla mia famiglia.
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