Lia Pipitone

Ringraziamo Salvo Palazzolo, giornalista de “La Repubblica”, che ci ha fornito questo documento e ci ha consentito di pubblicarlo sul sito della nostra Associazione

 


 

La storia di Lia Pipitone

di Salvo Palazzolo

 

Salvo Palazzolo (Palermo, 24 giugno 1970) è un giornalista e scrittore italiano.Dopo la laurea in Giurisprudenza ha iniziato l’attività giornalistica nel 1992, al quotidiano L’Ora di Palermo. Ha poi collaborato con i quotidiani il manifesto, La Sicilia e Il Mediterraneo, occupandosi di cronaca giudiziaria. Per quest’ultimo quotidiano ha seguito le vicende del caso Contrada: riguardo l’ex agente segreto del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ha poi realizzato nel 1995 con Claudio Cugusi, dell’Unione Sarda, e in collaborazione con Video On Line il primo sito internet italiano su un processo penale.
Dal 1999 è redattore del quotidiano La Repubblica, ha continuato a seguire l’evoluzione del fenomeno mafioso. Nel 2004 ha intervistato il capomafia in carcere Pietro Aglieri, ha poi scoperto la trattativa segreta fra i boss e un gruppo di sacerdoti, che dopo le stragi Falcone e Borsellino avrebbe dovuto portare alla dissociazione di alcuni mafiosi da Cosa nostra.
Ha collaborato con la società di produzione Magnolia e con la RAI come coautore di programmi televisivi di inchiesta su Cosa nostra, curati da Claudio Canepari e trasmessi da Rai 3: Scacco al re, la cattura di Provenzano; Doppio gioco, le talpe dell’antimafia; Le mani su Palermo. Quest’ultimo programma nel 2009 ha ricevuto il premio della critica alla XV edizione del premio giornalistico televisivo “Ilaria Alpi”.

 

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Dopo 29 anni, è ancora uno dei misteri di Palermo: l’assassinio di Lia Pipitone, la figlia venticinquenne di un capomafia molto vicino a Totò Riina e Bernardo Provenzano, che fu assassinata nel corso di una strana rapina, il 23 settembre 1983. Anni fa, alcuni pentiti dissero che la giovane era stata uccisa addirittura su ordine del padre, Antonino Pipitone, che così avrebbe voluto punirla per una presunta relazione extraconiugale. Ma il padre, boss dell’Acquasanta, è stato assolto negli anni scorsi in tutti e tre i gradi di giudizio. E il mistero è tornato fitto. Nei mesi scorsi, il figlio di Lia Pipitone, Alessio Cordaro, e il giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo hanno deciso di tornare a indagare su questo giallo. Per un anno e mezzo hanno raccolto nuove testimonianze, hanno riesaminato gli atti del processo già celebrato e anche le risultanze di altre inchieste di mafia: ne è nato un libro, “Se muoio, sopravvivimi – la storia di mia madre, che non voleva essere più la figlia di un mafioso”, edito da Melampo. Dal racconto-inchiesta emerge l’inedita storia di ribellione di una giovane nei confronti del padre capomafia, un padre-padrone che avrebbe voluto rinchiudere in casa la figlia. E, invece, lei era riuscita prima a fuggire da casa con il fidanzato conosciuto a scuola, che poi sposò nonostante lui fosse stato minacciato da alcuni boss. Tornata a Palermo, Lia aveva contestato anche pubblicamente il padre. Ecco che allora la storia della relazione extraconiugale divenne un pretesto, falso, messo in giro ad arte nel quartiere e in Cosa nostra per giustificare un’azione così radicale nei confronti di una giovane che continuava a mettere in discussione la subcultura mafiosa.
Il libro ha già fatto riaprire l’indagine sull’assassinio di Lia Pipitone: la nuova inchiesta è coordinata dal sostituto procuratore Francesco Del Bene, il pubblico ministero del processo di primo grado al boss Antonino Pipitone.

Durante la preparazione del libro, è emerso anche il racconto di un pentito, che già anni fa aveva fatto i nomi dei due assassini della giovane, ma all’epoca non era scattata alcuna verifica ulteriore. Angelo Fontana, il pentito dimenticato, conferma che l’omicidio di Lia Pipitone fu voluto da Cosa nostra ed eseguito da due sicari della cosca dell’Acquasanta, che misero in atto una messinscena: il pomeriggio del 23 settembre 1983, la giovane fu uccisa nel corso di una finta rapina a una sanitaria di via Papa Sergio. Fontana anche un altro particolare inedito: il giorno dopo l’assassinio di Lia Pipitone, i due sicari uccisero il migliore amico della giovane, Simone Di Trapani. E pure in questo caso, inscenarono una terribile messinscena, che è durata fino ad oggi: simularono un suicidio, scaraventando Simone Di Trapani dal quarto piano del palazzo in cui abitava, in piazza Generale Cascino. Prima, però, lo obbligarono a scrivere un messaggio: «Mi uccido per amore».
Scrive Alessio Cordaro nel suo libro: «Mia madre voleva essere solo una donna libera di vivere la sua vita, ma evidentemente anche questo dava fastidio alla mafia». Era una vita normale quella che cercava Lia Pipitone: potere scegliere il proprio fidanzato e il proprio amico del cuore, poter vestire come più le piaceva, poter esprimere liberamente le sue idee, senza alcuna imposizione.
«Era diventata una spina nel fianco della famiglia», avevano già detto i pentiti nel corso del processo. Ha aggiunto il pentito Nino Giuffrè: «“Ogni famiglia ha la sua croce”, commentò una volta il boss Bernardo Provenzano dopo l’omicidio della ragazza».

 

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