Giuseppe Mascolo

Ringraziamo Raffaele Cantone, membro della Corte di Cassazione ed ex magistrato della DDA di Napoli, che ci ha fornito questo documento e ci ha consentito di pubblicarlo sul sito della nostra Associazione

 

Giuseppe Mascolo, l’omicidio di un  farmacista coraggioso

 

di Raffaele Cantone

 

Nato a Napoli, cresce a Giugliano. È entrato in magistratura nel 1991. È stato sostituto procuratore presso il tribunale di Napoli fino al 1999, anno in cui è entrato nella Direzione distrettuale antimafia napoletana di cui ha fatto parte fino al 2007. Si è occupato delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi, riferite anche nel noto best seller di Roberto Saviano Gomorra, riuscendo ad ottenere la condanna all’ergastolo dei più importanti capi di quel gruppo fra cui Francesco Schiavone, detto Sandokan, Francesco Bidognetti,, Walter Schiavone, Augusto La Torre, Mario Esposito e numerosi altri. Si è occupato anche delle indagini sulle infiltrazioni dei clan casertani all’estero; in particolare in Scozia, dove è stata individuata una vera e propria filiale del clan La Torre di Mondragone dedita al reinvestimento in attività imprenditoriali e commerciali di proventi illeciti, in Germania, Romania ed Ungheria dove esponenti del clan Schiavone durante la latitanza si erano stabiliti ed avevano acquistato beni immobili ed imprese. Ha curato il filone di indagini che hanno riguardato gli investimenti del gruppo Zagaria in Parma e Milano facendo condannare per associazione camorristica un importante immobiliarista di Parma. Vive tutelato dal 1999 e sottoposto a scorta dal 2003 in quanto gli investigatori scoprirono un progetto di un attentato ai suoi danni organizzato dal clan dei Casalesi. Oggi lavora presso l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione.

 

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La prima volta che ho sentito parlare dell’omicidio del farmacista Giuseppe Mascolo ero entrato da poco a far parte della Direzione distrettuale antimafia della procura di Napoli. Era la fine del 1999 e mi erano stati assegnati i processi dell’area casertana. Non ne ero particolarmente entusiasta: mi sarei dovuto occupare del clan dei casalesi, di cui avevo sentito parlare molto più da pm che da cittadino di Giugliano.

Tra i miei primi incarichi c’era la gestione di un pentito, un tale Gianfranco. Aveva fatto parte di un clan camorristico che operava nella zona di Sessa Aurunca, una graziosa cittadina non lontana dal confine con il Lazio, stretta tra le colline e il mare.

Era una realtà che conoscevo poco. Il clan della zona portava il cognome del suo capo, molto comune in Campania: Esposito. Gli esponenti della famiglia del boss, però, erano anche chiamati «Muzzoni», termine dialettale usato forse per alludere a una corporatura tarchiata. Ed era così che venivano indicati anche negli atti della polizia.

Non sapendo nulla né di questo clan né di questo Gianfranco, avevo iniziato a documentarmi leggendo una dettagliata sentenza del tribunale di Santa Maria Capua Vetere che fra l’altro aveva condannato, seppur da latitante, il «mio» pentito.

La loro storia era simile a quella di tanti gruppi camorristici campani. I «Muzzoni» avevano esordito come criminali comuni negli anni Settanta. Inizialmente si erano alleati con il clan della vicina Mondragone, affiliati alla famiglia La Torre, quindi si erano legati al boss Antonio Bardellino.

Durante il conflitto con la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, si erano schierati con il cartello opposto, la Nuova famiglia con il risultato di perdere la propria autonomia e trasformarsi in un gruppo satellite.

Uscito di scena Bardellino, erano confluiti nel clan dei casalesi, guidato da quella sorta di direttorio che come si è visto faceva capo a Francesco Bidognetti e a Francesco Schiavone («Sandokan»).

Un legame che, però, era sottoposto a continue tensioni. I «Muzzoni» e i La Torre non tolleravano i metodi dei casalesi che, d’altro canto, lavoravano in modo sotterraneo per estrometterli dai loro territori, diventati nel frattempo economicamente interessanti. E, infatti, proprio nella zona più ricca e turistica, quel litorale dove si trova Baia Domitia, avevano imposto un loro uomo, quell’Alberto Beneduce il cui omicidio avrebbe scatenato una lunga guerra intestina.

I casalesi, secondo un metodo già sperimentato, avevano cercato di mettere i due gruppi locali gli uni contro gli altri per indebolirli. Ma non avevano fatto i conti con Augusto La Torre, giovane erede della famiglia di Mondragone, che freddò Beneduce con la complicità del boss Esposito.

Avevo anche raccolto alcune informazioni sul pentito Gianfranco. Risultava un personaggio di medio calibro. Il suo curriculum era solo apparentemente atipico: non era uno sbandato cresciuto in una famiglia indigente, ma il figlio di un piccolo imprenditore edile. Diplomato geometra, aveva anche sostenuto alcuni esami alla facoltà di architettura, prima di farsi invischiare nel «sistema». A Giugliano c’erano molti malavitosi con una storia simile alla sua.

Nel 1993 aveva abbandonato il clan ed era fuggito all’estero per il timore di essere ucciso. Il suo prestigio nel mondo della criminalità organizzata era cresciuto al punto da dare fastidio ai boss. Anche questa non era una novità: ai clan vai bene fino a quando accetti di fare il soldato, ma se dimostri di voler scalare le linee gerarchiche, scattano le gelosie interne e sei morto.

Per colmare ulteriori lacune mi ero fatto aiutare da una collega della procura di Santa Maria Capua Vetere, che conosceva bene l’argomento anche per aver lavorato a casi di camorra alla procura di Napoli. In particolare, mi interessava avere un’idea delle vicende ancora insolute da sottoporre poi a Gianfranco. Purtroppo, infatti, a causa della totale assenza di testimoni, è quasi solo grazie ai pentiti che è possibile scoprire gli autori dei delitti di camorra più gravi. Di quegli omicidi i cui fascicoli vengono archiviati con la burocratica etichetta «ignoti gli autori del reato».

Mentre lei parlava, prendevo diligentemente appunti su un piccolo taccuino. È stato allora che è venuto fuori il nome di Giuseppe Mascolo, per me totalmente sconosciuto. La mia collega si era sentita in dovere di puntualizzarne la professione: farmacista. Evidentemente, per distinguere quell’omicidio da tutti gli altri, peraltro numerosi nella zona, che invece riguardavano perlopiù personaggi coinvolti nelle attività illecite dei clan. Aveva subito aggiunto, infatti, che Mascolo era estraneo alle logiche criminali: titolare di una nota farmacia a Cellole, un piccolo comune vicino a Sessa Aurunca, aveva ricoperto vari incarichi politici nell’amministrazione comunale. Era stato ammazzato nel 1988 a Baia Domitia, nei pressi della sua abitazione. Sull’episodio si erano fatte diverse ipotesi, ma erano rimaste tali. Il caso era stato archiviato.

Lì per lì l’omicidio di Giuseppe Mascolo non aveva destato in me particolare interesse, talmente era lunga la lista di fatti di sangue che mi ero appuntato. Una volta faccia a faccia con Giancarlo, però, gli chiesi se ne sapeva qualcosa. Mi rispose che non aveva avuto alcun ruolo diretto in quella vicenda, ma poteva riferirmi ciò che gli aveva confidato un esponente del clan dei casalesi di Baia Domitia, all’epoca alleato dei «Muzzoni». L’omicidio era stato un errore. Beneduce pretendeva del denaro dal farmacista, ma lui ssi era rifiutato. Il boss allora aveva mandato alcuni suoi uomini a minacciarlo a mano armata, ma forse a causa di una reazione della vittima era partito un colpo di pistola che l’aveva ammazzato. Fece anche i nomi di alcuni degli esecutori materiali, un certo Toraldo, detto «il Guercio», e un tale Lucio.

Erano dichiarazioni stringate e «di seconda mano», insufficienti per imbastire un processo. Ma si trattava comunque di un primo indizio utile per far partire le indagini. A quel punto, infatti, il mio interesse per Giuseppe Mascolo si era ridestato. Volevo saperne di più e, soprattutto, capire se era possibile dopo tanto tempo trovare ancora delle prove.

Per le indagini pensai subito a Peppe Iatomasi, un maresciallo dei carabinieri in servizio al nucleo operativo di Caserta. Incarnava il tipico investigatore di strada: grande segugio e preziosa miniera di informazioni.

Quando al telefono gli nominai Giuseppe Mascolo come immaginavo, mi disse subito di ricordarsi bene di quell’omicidio. Il farmacista era morto per caso e i colpevoli erano rimasti ignoti, ma forse c’era una pista ancora da battere. Il giorno dopo mi aveva già procurato il vecchio rapporto dell’agguato, poche pagine ingiallite redatte dai carabinieri di Baia Domitia, intervenuti sul luogo del delitto.

La dinamica del delitto era descritta con precisione, grazie alle testimonianze dei familiari. Giuseppe Mascolo come ogni sera aveva chiuso la farmacia dove lavorava con il figlio Luigi, anche lui farmacista, per poi rincasare. Si erano allontanati insieme, ciascuno con la propria auto. Luigi aveva raccontato ai carabinieri di aver seguito il padre per una parte del tragitto, quindi si era diretto per una commissione verso la guardia medica, che però aveva trovato chiusa. Aveva quindi ripreso la via di casa ed entrando nel vialetto aveva incrociato un’auto con tre persone a bordo che si allontanava a tutta velocità. Pensando fossero ladri, d’istinto si era lanciato all’inseguimento ed era riuscito a prendere il numero di targa. Quindi, si era fermato alla stazione dei carabinieri per denunciare ciò che credeva un tentato furto. Il tutto era durato pochi minuti. Arrivato a casa, si era subito precipitato dentro per parlare con i genitori. C’era, però, soltanto la madre, che gli disse di aver sentito un urto e poi uno sparo. Solo allora Luigi era corso verso l’auto del padre, trovandolo riverso sui sedili anteriori ormai privo di vita.

Non avevo potuto fare a meno di rabbrividire pensando a cosa doveva aver provato quel ragazzo nel vedere il padre, che aveva lasciato vivo solo pochi minuti prima, giacere cadavere.

Al contrario di Sessa Aurunca, Baia Domitia la conoscevo abbastanza bene. Da ragazzino venivo lì dalla vicina e più popolare Castelvolturno, dove i miei avevano una casetta per le vacanze. Allora era un insieme di villette, parchi e palazzine residenziali, costruite all’interno di una splendida pineta a ridosso della spiaggia, lungo il litorale domizio. Negli anni Settanta era diventata una meta turistica ambita dagli stranieri. Tra i vari residence c’era anche il cosiddetto villaggio svedese, un luogo «mitico» della mia infanzia. Si favoleggiava fosse popolato da straordinarie bellezze nordiche, rimaste per quanto mi riguarda solo una leggenda metropolitana.

Con il tempo quel posto era cambiato, e in peggio. Il turismo era diventato «mordi e fuggi» e le ville più belle erano state chiuse e abbandonate. Ho sempre pensato che gran parte delle colpe del degrado fosse della camorra. Anche chi come me ci capitava solo occasionalmente, aveva sentito dire più di una volta che alcune delle più significative attività commerciali e turistiche di quella zona erano gestite da esponenti dei clan. Del resto, bastava guardarsi intorno con un po’ di attenzione per notare gruppetti di giovinastri che ostentavano con orgoglio il fatto di sentirsi «casalesi».

Dopo avere letto le dichiarazioni del giovane Luigi Mascolo, mi concentrai su quelle della madre. Seppi così che il farmacista aveva fatto degli investimenti in zona: aveva acquistato dei terreni, uno dei quali inserito nel piano regolatore. Si trattava di un ottimo affare, che poteva senz’altro aver ingolosito il clan. Qualcuno, infatti, si era fatto avanti per conto dei camorristi, manifestando il loro interesse. Anche dopo la morte del farmacista, un personaggio della zona aveva avuto l’ardire di ritornare alla carica presentandosi a nome di Beneduce per riproporre l’acquisto di quel lotto.

Pensai che poteva essere quella la vera causa dell’omicidio. Provai anche un moto di rabbia all’idea che la vita di un uomo era stata spezzata per costruire qualche villetta. Ma allora ero ancora un magistrato alle prime armi: oggi, dopo otto anni alla Direzione distrettuale antimafia, avendo visto di quanta crudeltà sono capaci gli uomini della camorra, purtroppo non potrei più provare lo stesso sconcerto.

Dopo qualche giorno incontrai finalmente Iatomasi per parlare del caso Mascolo. Mi confermò che il farmacista era una persona stimata: la sua morte aveva destato un certo clamore. Il maresciallo aveva anche incontrato il figlio, che continuava a non darsi pace. Oltre al dolore di quella tragedia, c’erano state le insinuazioni della gente: in terra di camorra dopo un omicidio accade spesso che soffi il venticello della calunnia.

Gli chiesi a cosa si riferisse quando al telefono mi aveva parlato di una pista. Iatomasi mi raccontò che parecchi anni prima, nel corso di un’indagine in quella zona, aveva conosciuto la moglie di un esponente di primo piano del clan di Baia Domitia. L’uomo, un tale Toraldo, era scomparso e tutti sapevano che non era fuggito ma doveva essere rimasto vittima della «lupara bianca». La donna aveva chiesto notizie del marito agli amici, ma erano stati evasivi. Si era presentata allora a casa di Beneduce, che l’aveva trattata in malo modo. Il boss le aveva offerto del denaro ma lei, pur avendone bisogno, l’aveva rifiutato: non avrebbe potuto accettare la carità da chi riteneva responsabile della morte del suo uomo. Si era rivolta quindi ai carabinieri perché voleva liberarsi la coscienza, raccontando agli inquirenti tutto ciò che Toraldo nel corso degli anni le aveva rivelato. Tra quei segreti, c’era anche l’omicidio di Giuseppe Mascolo che, a suo dire, era stato ammazzato proprio dal marito.

Il maresciallo aveva subito informato la procura che una testimone era disposta a parlare, ma non ne aveva saputo più nulla. Forse quella donna non era stata mai sentita dai magistrati.

Mi entusiasmai: Toraldo era proprio uno dei killer indicati da Gianfranco. Dovevamo assolutamente trovare quella donna e verificare se era ancora disposta a collaborare.

Passarono parecchi giorni e a Giuseppe Mascolo non ci pensavo più, risucchiato com’ero dal vortice dei tanti altri casi di cui mi dovevo occupare. Iatomasi, però, si era dato da fare e mi portava buone notizie. Aveva trovato la donna. Ora abitava in provincia di Napoli e si era rifatta una vita con un altro uomo. Al telefono, però, la signora gli era apparsa scocciata: non era più il momento di parlare per lei, anche perché il nuovo compagno non voleva sapere nulla del suo passato.

Sono sempre stato convinto che in certe situazioni una telefonata non basta: è fondamentale creare un clima di fiducia attraverso il rapporto umano diretto. Pregai il maresciallo di non arrendersi e di andare a parlarle di persona. Ero certo che ci sarebbe riuscito, e così fu.

Sebbene recalcitrante, alla fine la donna aveva acconsentito a rispondere alle domande. Si chiamava Silvana. Ancora bella, seppure non più giovanissima, i suoi occhi spenti tradivano una vita difficile e sofferta. Suo marito era effettivamente uno degli uomini di fiducia di Beneduce e si occupava di estorsioni e intimidazioni. A suggello di questo legame criminale, il boss aveva fatto da testimone alle loro nozze.

Toraldo, in realtà, non le raccontava granché, ma ci voleva poco a capire la vita che faceva. Una notte era rientrato stravolto e ferito a un piede. Imprecava contro i suoi amici, dicendo che lo avevano lasciato solo sulla spiaggia. La mattina successiva le aveva chiesto di comprare un quotidiano locale. Appena aveva visto i titoli, era sbiancato. Poi le aveva raccontato che era stato proprio lui ad ammazzare la persona di cui parlava il giornale. Si trattava di Giuseppe Mascolo.

Silvana non l’aveva mai ritenuto capace di uccidere, ma lui si era giustificato dicendole che il farmacista doveva solo essere intimidito perché non voleva pagare il pizzo. Le cose avevano iniziato ad andare storte quando, insieme ai suoi complici, si era avvicinato con le armi in pugno. Mascolo aveva cercato di scappare con l’auto e lui nella confusione si era ferito il piede. Aveva reagito sparando un unico colpo, che purtroppo aveva centrato il farmacista alla testa. Allora erano fuggiti. Abbandonata l’auto nei pressi di una spiaggia, si erano divisi: malgrado fosse ferito, Toraldo era stato lasciato solo. Le aveva anche fatto i nomi dei suoi tre compari: fra di loro c’era quel Lucio di cui mi aveva parlato Gianfranco.

Silvana ci disse che dopo quell’omicidio il marito era cambiato. I suoi rapporti con Beneduce erano andati via via peggiorando. A quanto pare, il clan ora lo riteneva inaffidabile: temevano che potesse crollare e lo avevano fatto sparire per questo. Aggiunse che glielo avevano tolto nel modo peggiore: non aveva nemmeno un cadavere su cui piangere.

Quest’ultima parte della deposizione era stata particolarmente toccante. E anche significativa, perché riassumeva la filosofia delle donne di camorra, che considerano la morte del proprio uomo come un’eventualità quasi fisiologica: lo sgarbo più grave non è l’omicidio in sé, ma l’impossibilità di avere una tomba da venerare.

Le dichiarazioni di Silvana, dunque, si erano confermate molto utili: i fatti che ci aveva raccontato coincidevano con quello che mi aveva detto il pentito.

I carabinieri prepararono un’informativa piena di elementi di riscontro e io scrissi una richiesta cautelare nei confronti di Lucio. Del resto, Toraldo era da considerarsi morto così come Beneduce, il presunto mandante del delitto, che era stato a sua volta ammazzato nella guerra tra clan.

Il gip non accolse la richiesta, ritenendo insufficiente il materiale probatorio. Sollecitai, comunque, il rinvio a giudizio che il gup, il giudice dell’udienza preliminare, non negò: alla fine, dunque, ci sarebbe stato il processo davanti alla Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere.

Alla prima udienza del processo, la famiglia Mascolo si era costituita parte civile. Una piacevole sorpresa: in terra di camorra i familiari dei morti ammazzati non lo fanno quasi mai. Sanno che i boss non lo gradiscono perché leggono questa iniziativa come una simbolica adesione allo Stato e, quindi, una sfida alla loro autorità. Inoltre, sono anche pochi gli avvocati che accettano questo tipo di incarichi. Forse temono di perdere la numerosa clientela che viene dalle file della camorra. Ciò che altrove è semplicemente un passaggio tecnico del processo, infatti, in Campania diventa un atto di coraggio.

Durante una pausa dell’udienza, mi si era avvicinato Luigi Mascolo, accompagnato dal suo avvocato. Non l’avevo mai incontrato prima, non ritenendolo necessario dato che le sue dichiarazioni all’epoca dei fatti erano state molto esaurienti. Mi aveva stretto la mano, ringraziando me e i carabinieri per aver riportato a galla un episodio che ormai era rimasto un tarlo solo per la sua famiglia.

Partivamo con lo svantaggio di un gip che aveva ritenuto gli indizi insufficienti, e dunque non gli avevo nascosto che l’esito del processo mi sembrava incerto. Inoltre, temevo per la tenuta della teste. Dopo i riscontri dei carabinieri, l’avevo fatta ricontattare per proporle di entrare nel programma di protezione come collaboratore di giustizia, ma si era rifiutata. Ormai aveva un’altra vita e il suo compagno non avrebbe mai accettato di lasciare il Napoletano, per vivere chissà dove, guardandosi sempre le spalle.

Luigi Mascolo, però, era ottimista: comunque sarebbe andata, quel rinvio a giudizio lo ripagava di tante amarezze. Aveva sognato mille volte il momento in cui lo Stato avrebbe ristabilito la verità e restituito l’onore a un uomo che aveva avuto il solo torto di non cedere a un sopruso.

Il processo si svolse a ritmo serrato, con un calendario fitto di udienze. Poi arrivò il giorno della testimonianza di Silvana, che tanto mi preoccupava. Chiesi a Iatomasi di starle vicino per tutto il tempo: non sarebbe stato facile per lei parlare in pubblico davanti agli ex amici del marito ed era molto probabile che avesse ricevuto intimidazioni. Quando venne il suo turno, non riusciva quasi a proferire parola e condiva le poche frasi di «non ricordo». Ma confermò tutte le sue dichiarazioni. La sua testimonianza resse anche al controesame della difesa.

Nel corso del processo, decisero di collaborare anche Augusto La Torre, il boss di Mondragone, e alcuni suoi uomini. Pur non avendo avuto un ruolo diretto nella vicenda, non potevano non sapere chi e perché aveva voluto un omicidio come quello, nella zona confinante al loro territorio.

Finita l’istruttoria, mi ero quindi dedicato a preparare la requisitoria seguendo un sistema che sarebbe poi diventato il «mio» metodo: ulteriori letture dei verbali, tanti appunti e una scaletta dettagliata. Rileggendo il materiale per l’ennesima volta, facevo l’avvocato del diavolo ponendomi domande su domande: solo una volta convinto al cento per cento avrei potuto chiedere una condanna.

Feci una requisitoria breve e concisa, riservando però un ampio spazio introduttivo alla vittima, un uomo che aveva perso la vita per un atto di coraggio e che meritava un tributo. Conclusi chiedendo per Lucio, che non si era mai presentato alle udienze, una condanna a ventisei anni.

Al momento della sentenza ero nervoso. Ho sempre evitato le personalizzazioni, ma quando un processo ti costa tanto lavoro e, soprattutto, sei convinto delle tue argomentazioni, non puoi non fare il tifo perché finisca in un certo modo. Non appena la Corte iniziò a leggere la sentenza, capii che aveva condannato l’imputato. La pena fu di ventuno anni.

Uscendo dal tribunale, Luigi Mascolo mi disse che lo Stato e le istituzioni per fortuna ogni tanto non deludono i cittadini. Gli strinsi la mano e me ne andai.

Una volta che il mio compito in un processo si esaurisce, è mia abitudine disinteressarmi di quanto avviene dopo, e fu così anche quella volta. A distanza di qualche tempo, però, l’avvocato di parte civile mi informò che la sentenza era stata convalidata in appello. Anni dopo, sono venuto a sapere che anche la Corte di cassazione l’aveva confermata.

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