Giovanni Domè
Ringraziamo Ferdinando Domè, figlio di Giovanni, che ci ha fornito questo documento e ci ha consentito di pubblicarlo sul sito della nostra Associazione
La Biografia di Giovanni Domè
di Ferdinando Domè
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Sono passati tantissimi anni: era il lontanissimo 1969, esattamente il 10 Dicembre, quando mio padre Giovanni Domè venne brutalmente assassinato. Ricordo benissimo: era quasi sera, piovigginava, ma nella città si respirava un’aria di festa. Era già passata la giornata dell’Immacolata, che in tutte le famiglie, in particolare a Palermo, dà inizio al periodo di festa, di giocate a carte, di grandi abbuffate e di shopping, almeno per chi poteva permetterselo. Anche a casa mia si cominciava a sentire l’avvicinarsi delle feste, la nostra condizione economica non ci permetteva di fare shopping, però si avvicinava il 13 Dicembre, Santa Lucia, e mamma aveva già messo ad ammorbidire in acqua il grano, per preparare la cosiddetta “cuccia”, che a noi bambini piaceva da matti. Quella cuccia non l’abbiamo mai più mangiata.
Mio padre nacque a Palermo il 17 ottobre 1938. Proveniva da una famiglia numerosa e umile e, per questo motivo, aveva frequentato solo le scuole elementari; poi dovette cominciare a lavorare per poter aiutare la famiglia. Non credo che abbia avuto un’infanzia spensierata e felice. Quando, ancora neanche ventenne, conobbe mamma anche lei era molto giovane, neanche maggiorenne. Fu il classico colpo di fulmine. Da quel momento cominciarono i conflitti con suo padre -perché voleva sposarsi e quindi non poteva più contribuire al mantenimento della sua famiglia- per cui i miei genitori decisero di andare via di casa: in poche parole fecero la classica “fuitina”ed in quell’occasione, ovviamente, fui generato io.
Mio padre era un operaio edile e -considerata l’età molto giovane- professionalmente non aveva una grande esperienza, per cui la paga non era un granchè e, con il passare degl’anni e l’arrivo di altri quattro figli, faceva molto fatica a mantenere la famiglia. Lui però non si scoraggiava, era molto orgoglioso: dopo la sua giornata lavorativa, quando gli si presentava l’occasione, faceva piccoli lavori di muratura o da imbianchino.
Un giorno si presentò l’occasione della sua e della nostra vita, quell’occasione che avrebbe cambiato la nostra situazione economica: non saremmo diventati ricchi, ma avremmo potuto avere una situazione economica dignitosa. Invece fu la sua morte e il dramma, il baratro di tutta la mia famiglia.
In pratica da un parente di un collega di mio nonno materno -che lavorava a l’ENEL- gli venne offerto un lavoro da edile e, in aggiunta, da addetto alla portineria di un garage. Questo significava alloggio, elettricità e acqua gratis: un notevole risparmio per noi. Ovviamente accettò subito l’offerta.
I primi mesi le cose sembrarono andare benissimo: la paga bastava, poteva anche permettersi di comprarci le scarpe, invece di aspettare i sorteggi a scuola per le famiglie più bisognose. O, per esempio, dopo qualche mese grazie al suo nuovo lavoro, fece il suo primo vero regalo a mamma:” la camera da letto”, pagata a rate. Quelle rate non riuscì mai a finire di pagarle.
Lo stipendio, col passare dei mesi, cominciava a ritardare: non era mai puntuale. Questo gli provocava molto frustrazione, perché -anche se non c’erano spese di affitto- la spesa bisognava farla, bisognava pur mangiare. Per cui molto spesso doveva recarsi nell’ufficio della ditta per chiedere almeno un anticipo di una parte degli stipendi arretrati. Cosi avvenne anche quella maledetta sera durante la quale, dopo il lavoro, si recò a piedi (poichè non aveva in tasca neanche i soldi per comprare il biglietto del pullman) in ospedale a portare degli indumenti puliti a un mio zio, che si era infortunato sul lavoro.
Quindi, al suo rientro dall’ospedale, incontrò un suo collega, Salvatore Bevilacqua, al bar accanto all’entrata del vialetto che portava negli uffici della ditta Moncada: insieme si avviarono in quella direzione. A metà di quel vialetto incontrarono i due figli del titolare della ditta, Fillippo e Angelo Moncada, che, dopo avere posteggiato, stavano scendendo dall’auto.
Per molti anni sono state fatte molte supposizioni su cosa avvenne quella sera: addirittura nel 1972 ci fu un processo, ma tutti gli imputati furono assolti. Su mio padre fu scritto di tutto: che era un boss, un guarda spalle, addirittura quel povero Bevilacqua fu definito un ragioniere della mafia. Io mi ricordo benissimo di questa persona: era molto semplice, umile e balbuziente, tutti lo prendevano un po’ in giro. Anche la figura di mia madre fu attaccata e offesa sotto il profilo personale. Fu definita “la bambola in vetrina”, perché in effetti il lavoro di portineria dei garage lo svolgeva mia mamma, perché la portineria e quindi anche la nostra casa si trovavano alla fine della rampa dell’accesso ai garage, cioè sotto terra.
Per la mia famiglia tutto ciò fu devastante: non solo mio padre era stato massacrato e ritenuto un delinquente, ma dovemmo subire la discriminazione e l’isolamento da parte della gente. Per fortuna non tutti, qualcuno ci restò vicino. Ricordo benissimo -è qualcosa che non scorderò mai più, ancora oggi ne pago le conseguenze- che, quando andavo per strada a giocare, molti ragazzini non volevano giocare con me e miei fratelli perché gli era stato proibito dai genitori. Noi eravamo figli di un mafioso. Ce lo dicevano esplicitamente. Questo era quello che la gente pensava di noi e di mio padre, grazie soprattutto ai giornalisti che, pur di vendere i giornali, scrivevano secondo le loro ricostruzioni. La nostra situazione economica non ci permetteva di intraprendere azioni legali: mia mamma, tramite uno zio, si limitava a mandare qualche lettera di risentimento alle redazioni dei giornali. Ovviamente senza risultato. Tutto questo anche se, una settimana dopo la strage, mamma ed io fummo interrogati dall’allora Capitano Russo (anche lui assassinato dalla mafia a Ficuzza, nel corleonese) e da Boris Giuliano. Non scorderò mai più quelle parole dette dal Capitano Russo: quelle parole permisero a me ed a mia madre di avere la forza di resistere a quella montagna di fango versata su mio padre. “ Signora stia tranquilla: noi sappiamo che suo marito non centra nulla in questa storia”. Uscimmo da quell’ufficio con due sacchi di indumenti. L’unico aiuto materiale e morale che abbiamo ricevuto dallo “Stato”. Ovviamente nulla dalla mafia perché mio padre non era un mafioso e si sa, la mafia aiuta i suoi affiliati. Invece per noi figli -inizialmente per i primi tre e, negli anni successivi, anche per gli altri due più piccoli- ha significato l’allontanamento dalla famiglia: cioè Collegio. Il periodo in Collegio è stato il periodo peggiore della mia infanzia. Raccontare quel periodo mi fa ancora molto male. Un carcere al confronto era un albergo. Però di quel periodo -adesso che sono un uomo adulto- posso dire che mi ha temprato, mi ha insegnato a vivere in questo mondo.
Tutto ciò, vivere con questo marchio addosso, e, perché no, anche con un po’ di vergogna, è durato quarant’anni. Fino al 2004, quando venne arrestato un boss, Gaetano Grado , che “ si pentì” e cominciò a raccontare una serie di omicidi cui aveva partecipato, tra questi quella strage, denominata la “Strage di viale Lazio”
Grado raccontò che a Palermo in quel periodo c’era un boss, Michele Cavataio, che aspirava a diventare il “capo dei capi”: commettendo omicidi e cercando di far cadere la colpa su gli altri boss egli voleva provocare una guerra di mafia alla cui fine rimanere unico rappresentante. Ma le altre cosche -capito l’inganno- decisero di eliminarlo.
Travestiti da poliziotti, la sera del 10 Dicembre del 1969 decisero di recarsi presso gli uffici della Moncada, dove Cavataio aveva l’abitudine di trovarsi da qualche mese. Quegli uffici erano diventati gli uffici delle sue riunioni, addirittura vietava ai due figli del titolare di mio padre di entrare in quegli uffici, anche se erano loro i proprietari. Entrati in quel maledetto vialetto, il commando di killer di cui Riina era l’organizzatore (composto da Provenzano, Calogero Bagarella, Damiano e Grado) incontrò sulla loro strada mio padre, il collega ed i figli del titolare. Mio padre venne tenuto sotto la minaccia delle armi da Provenzano, gli altri tre, il collega ed i due titolari, vennero trascinati a mò di scudo verso gli uffici. Nello scivolo del garage adiacente al vialetto c’era nascosto il guardaspalle di Cavataio che, capito che quelli non erano veri poliziotti, scappò gridando in dialetto palermitano “ non sono poliziotti”. Provenzano, ancora inesperto, preso dalla paura uccise con una fucilata alla schiena mio padre nel vialetto. Gli altri, giunti davanti alla porta dell’ufficio, vennero investiti dal fuoco di Cavataio che, capito cosa stava succedendo ed armato fino ai denti, sparò uccidendo il collega di mio padre, che si trovava davanti a mò di paravento, Bagarella, ferì Grado per poi cadere ferito mortalmente anche lui. I due titolari rimasero feriti. Ed in questa occasione a Provenzano venne attribuito il soprannome di “u tratturi” perché finì Cavataio con il calcio del fucile.
Dopo quella sera non ho avuto più mio padre, per molto tempo non ho accettato la sua morte. Ogni sera l’aspettavo, pensavo che sarebbe arrivato da un momento all’altro. Lo cercavo nella gente, in qualcuno che gli somigliava un po’. Era come vivere in un incubo, un brutto sogno dal quale non riuscivo a svegliarmi.
Di lui non ho molti ricordi, ma ricordo con molto piacere quando tornava a casa dal lavoro. Stanco morto si divertiva, con l’ausilio del libro, a interrogarmi su cosa avevo studiato. A volte, se a casa mia c’era qualche compagno di scuola, si divertiva a metterci in competizione per vedere chi fosse più preparato, si illuminava se ero io a vincere, ma mi toccava studiare anche la sera se non rispondevo alle domande.
Lui aveva frequentato solo le elementari, ma era molto intelligente. Capiva quanto fosse importante la scuola e ci teneva molto che noi studiassimo. Mi ricordo l’anno che cambiammo casa e andammo a vivere in Viale Lazio: a causa del trasferimento fui bocciato. Non mi ero inserito bene nel nuovo ambiente scolastico. Prima frequentavo una scuola in un quartiere popolare, dove non c’era nessuna differenza di classe sociale: la scuola in viale Lazio invece era frequentata da famiglie benestanti. Non mi adattai!
Quell’anno fui bocciato e d’estate, per punizione, mi toccò lavorare come garzone in un bar e col divieto assoluto di giocare a calcio.
Un altro valore che, nella nostra breve vita insieme, ci ha lasciato è la famiglia. La famiglia per lui era alla base, il punto di riferimento. Lui avrebbe dato la sua vita per la sua famiglia ed in effetti cosi è stato.
Io ed i miei fratelli, alla fine per motivi economici, non abbiamo studiato molto: dopo le medie e, per me, dopo l’Istituto professionale, abbiamo iniziato a lavorare. Questo, però, ci ha permesso di fare studiare i nostri figli e -personalmente- permettere ai miei figli di arrivare alla Maturità ed in seguito alla Laurea.
Sono sicuro che il suo viso si sarà illuminato di gioia anche da lassù.
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