Filomena Morlando

Ringraziamo Raffaele Cantone, membro della Corte di Cassazione ed ex magistrato della DDA di Napoli, che ci ha fornito questo documento e ci ha consentito di pubblicarlo sul sito della nostra Associazione

 

Mena Morlando, l’appuntamento con un destino crudele!

 

 

di Raffaele Cantone

 

 

Nato a Napoli, cresce a Giugliano. È entrato in magistratura nel 1991. È stato sostituto procuratore presso il tribunale di Napoli fino al 1999, anno in cui è entrato nella Direzione distrettuale antimafia napoletana di cui ha fatto parte fino al 2007. Si è occupato delle indagini sul clan camorristico dei Casalesi, riferite anche nel noto best seller di Roberto Saviano Gomorra, riuscendo ad ottenere la condanna all’ergastolo dei più importanti capi di quel gruppo fra cui Francesco Schiavone, detto Sandokan, Francesco Bidognetti,, Walter Schiavone, Augusto La Torre, Mario Esposito e numerosi altri. Si è occupato anche delle indagini sulle infiltrazioni dei clan casertani all’estero; in particolare in Scozia, dove è stata individuata una vera e propria filiale del clan La Torre di Mondragone dedita al reinvestimento in attività imprenditoriali e commerciali di proventi illeciti, in Germania, Romania ed Ungheria dove esponenti del clan Schiavone durante la latitanza si erano stabiliti ed avevano acquistato beni immobili ed imprese. Ha curato il filone di indagini che hanno riguardato gli investimenti del gruppo Zagaria in Parma e Milano facendo condannare per associazione camorristica un importante immobiliarista di Parma. Vive tutelato dal 1999 e sottoposto a scorta dal 2003 in quanto gli investigatori scoprirono un progetto di un attentato ai suoi danni organizzato dal clan dei Casalesi. Oggi lavora presso l’Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione.

 

 

 

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Per raccontare la storia di Mena Morlando occorre fare un salto indietro nel tempo. Era il 17 dicembre 1980 e Giugliano, il paese in provincia di Napoli in cui vivo,  era in balìa di una feroce guerra di camorra.

Allora era un centro agricolo di non più di trentamila abitanti, ma presto sarebbe esploso diventando il fulcro di uno sviluppo edilizio e demografico abnorme. Il sacco di quel territorio, oggi avvelenato anche dalle discariche, faceva gola a molti, primi fra tutti i clan camorristici che vi avevano già visto un colossale affare.

Lo scontro tra opposte formazioni andava avanti da giorni e le persone comuni ci stavano facendo quasi l’abitudine.

Mena Morlando, per esempio, una ragazza come tante, venticinque anni, figlia di un impiegato delle poste e di un’insegnante, come i fratelli aveva studiato, si era diplomata e stava cominciando a fare qualche supplenza nelle scuole private della zona.

Sono sicuro che Mena non sapesse nulla dei clan. Certo, non aveva potuto non accorgersi dei tanti morti ammazzati per strada, ma come gran parte dei ragazzi della periferia, probabilmente era convinta di appartenere a tutto un altro mondo: quei fatti di sangue non la riguardavano.

All’epoca, avevo pochi anni meno di lei. Era capitato anche a me di vedere dei cadaveri riversi sull’asfalto e di commentare con gli amici della piazza ciò che stava accadendo. C’era una sanguinosa guerra in atto. Da un lato, i figli del vecchio boss del paese, defunto nel suo letto, avevano deciso di sostenere Raffaele Cutolo, il boss di Ottaviano a capo della Nuova camorra organizzata; dall’altro, un gruppo emergente parteggiava per la Nuova famiglia. Quante volte, parlando di quegli omicidi con lo stesso interesse riservato al calcio, avevo sentito pronunciare la frase: «Che ci importa, tanto si ammazzano tra di loro!».

Era la mentalità diffusa di chi, in buona fede ma sbagliando clamorosamente, pensava – e forse pensa tuttora – che la camorra sia solo un problema criminale e non un cancro che sta erodendo la società alle sue fondamenta.

Nel tardo pomeriggio di quel 17 dicembre, dunque, Mena era uscita di casa per una commissione. Abitava in una zona tranquilla del centro storico e doveva recarsi in lavanderia. Non sarebbe mai più tornata. Fu colpita da un proiettile alle 18.15. Portata in ospedale, vi giunse cadavere, come preciserà con linguaggio burocratico il rapporto della polizia.

Quella sera stessa la notizia aveva già fatto il giro del paese. Ricordo che mio padre, anche lui dirigente delle poste, rientrando a casa, ce ne parlò visibilmente scosso. Conosceva bene il padre della ragazza, erano stati colleghi. Anch’io e i miei amici restammo sconcertati. Più tardi, «radio piazza» aveva già emesso la sentenza: era morta per errore.

Il giorno dopo, invece, i giornali insinuarono che Mena, definita in modo irrispettoso «la maestrina», era stata uccisa probabilmente per motivi passionali. Una beffa crudele che si aggiunse alla disperazione della sua famiglia. Eppure, non ci voleva molto per stabilire fin da subito la verità. I bossoli trovati a terra erano tutti calibro 9, ma appartenevano a due pistole diverse: Mena era finita in mezzo a una sparatoria tra camorristi. Nei giorni successivi, la stampa locale presentò questa diversa ricostruzione come la più plausibile, ma il danno ormai era fatto. Avevano sporcato in modo del tutto gratuito la memoria di una ragazza innocente e perbene.

Due anni dopo i giornali diedero notizia che per quel delitto era stato arrestato un uomo. Si trattava di Francesco Bidognetti, colui che sarebbe diventato uno dei boss dei casalesi, e che all’epoca si era stabilito a Giugliano per dar man forte al nuovo gruppo emergente. Quei proiettili erano destinati a lui.

Purtroppo Mena si era trovata nel posto e nel momento sbagliati, e il camorrista si era fatto scudo del suo corpo.

In seguito il boss venne assolto, ma questa versione è stata poi confermata da numerosi pentiti ed accertata giudiziariamente tanto che ai familiari sono state riconosciute le provvidenze per i familiari delle vittime di mafia.

I genitori della ragazza non si ripresero più e morirono a breve distanza di crepacuore. I fratelli, però, hanno continuato a tenerne viva la memoria.

Nel 1998, con una cerimonia ufficiale cui parteciparono pochi politici e amministratori pubblici, era stata posta una lapide in ricordo della giovane vittima.

Vi si leggeva che era stata «uccisa dalla criminalità».

Ogni volta che ci passavo davanti, non riuscivo a non indignarmi.

In quella dedica mancava una parola che in certi luoghi ancora oggi è difficile pronunciare: «camorra».

Una lacuna che è stata colmata nel dicembre del 2011, quando i fratelli Morlando hanno fatto apporre una nuova lapide.

La verità è stata finalmente incisa nella pietra per ricordare che la violenza e il sopruso dei clan riguardano tutti, nessuno escluso. Mena è stata «ammazzata dalla camorra», ma non è un’eroina né avrebbe voluto diventarlo. Va ricordata perché ha pagato anche per noi, per la nostra indifferenza su ciò che ci accadeva (e ancora ci accade) intorno.

Raffele Cantone

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