Boris Giuliano

Ringraziamo Leonardo Guarnotta, magistrato ed ex membro del pool antimafia di Palermo, che ci ha fornito questo documento e ci ha consentito di pubblicarlo sul sito della nostra Associazione

 

Il ricordo di Boris Giuliano

di Leonardo Guarnotta

 

 Leonardo Guarnotta (Palermo, 1940) è un magistrato italiano. È stato membro del pool antimafia coordinato dal giudice Antonino Caponnetto. Con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello ha istruito il Maxiprocesso di Palermo. 

 

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La mattina del 21 luglio 1979, numerosi colpi esplosi da una pistola calibro 7,65 colpivano alla nuca e alla schiena il vice-questore Giorgio Boris Giuliano, intento a sorbire, in un bar di Via Francesco Paolo Di Blasi,  quello che sarebbe stato l’ultimo caffè della sua vita, spazzata via in modo proditorio da un killer di mafia, identificato dopo laboriose indagini nel corleonese Leoluca Bagarella, cognato di Salvatore Riina, condannato per questo omicidio alla pena dell’ergastolo con sentenza del 7 marzo 1995.

Così moriva un fedele servitore dello Stato che, come già era avvenuto e come si ripeterà in seguito per altri, lo Stato non aveva saputo proteggere.

Ma perché è stato ucciso il dott. Boris Giuliano?

La domanda non può prescindere da una attenta riflessione sugli scenari che stavano per aprirsi e sugli sconvolgimenti già in atto all’interno della associazione per delinquere di tipo mafioso denominata “cosa nostra”.

Occorre, infatti, fare riferimento al particolare contesto storico-politico in cui l’omicidio è stato ideato ed eseguito e alle doti professionali del poliziotto, amato dai suoi collaboratori, stimato ed apprezzato dai magistrati, con i quali collaborava, per un modo nuovo di combattere “cosa nostra”, temuto per questo dai mafiosi, soprattutto dai “corleonesi” i c.d. “viddani”, con a capo Provenzano, Bagarella e Riina .

Per un verso, infatti, ai loro occhi Boris Giuliano appariva un temibile nemico, all’epoca non molti per la verità, da eliminare ad ogni costo perché le sue doti di poliziotto coraggioso e di lucido investigatore, grazie alle quali aveva scoperto, tra l’altro, un traffico di droga tra la Sicilia e gli Stati Uniti organizzato da “cosa nostra” ed aveva individuato una base operativa della mafia a Corleone, avrebbero potuto ostacolare il divisato proposito dei “corleonesi” e dei loro alleati, realizzato da lì a qualche mese, di “scendere” a Palermo ed acquisire il potere egemonico su tutta “cosa nostra”, facendo scoppiare la c.d. seconda guerra di mafia, combattuta e vinta grazie ad una autentica mattanza di altri appartenenti a quella associazione criminale, facenti capo a Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo, i quali hanno aperto la serie lunghissima di oltre trecento, quattrocento morti ammazzati tra il 1981 ed il 1983.

Gli omicidi dei due carismatici uomini d’onore segnarono una svolta nella storia di “cosa nostra”, che condizionerà tutto il futuro dell’organizzazione e le sue strategie, fino ai tragici avvenimenti successivi.

Ma già in precedenza la chirurgica operazione posta in essere dai “corleonesi” e dai loro alleati, una specie di pulizia “etnica” finalizzata alla sistematica eliminazione di chiunque, rappresentanti delle istituzioni, magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine costituto, giornalisti, potesse costituire un ostacolo, anche soltanto potenziale, alla realizzazione del disegno egemonico di sostituirsi all’ala moderata di “cosa nostra”, rappresentata da Bontate ed Inzerillo, ed acquisire nel tempo il predominio in seno alla “commissione provinciale” (organo direttivo e deliberativo della organizzazione), era iniziata già negli anni ’70 con l’uccisione del col. Giuseppe Russo, valoroso ufficiale dei carabinieri, avvenuta il 20 agosto 1977 ed era proseguita con la soppressione del giornalista Mario Francese (26 gennaio 1979), del segretario provinciale della D.C. Michele Reina (9 marzo 1979), del dott. Boris Giuliano, del Presidente della Regione Siciliana, Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), del cap. dei Carabinieri Emanuele Basile (4 maggio 1980).

E tutto questo in un contesto temporale economico-finanziario-politico (seconda metà degli anni 60’, 1970 e 1980) in cui:

la città di Palermo è stata a lungo amministrata da una classe politica di cui facevano parte, tra gli altri, Vito Ciancimino, sindaco della città per alcuni mesi, condannato per mafia, e Salvo Lima, ucciso nel 1992 con modalità mafiose perché, secondo le attendibili propalazioni di numerosi “pentiti” non aveva mantenuto le promesse fatte ai capi di “cosa nostra”;

la riscossione delle imposte in Sicilia è stata a lungo affidata a due uomini d’onore della famiglia di Salemi, i cugini Nino e Ignazio Salvo, titolari della SATRIS, beneficiaria della più alta aliquota di aggio di tutta l’Italia.

Anche Ignazio Salvo, condannato per mafia, non è sfuggito alla vendetta di “cosa nostra” ai cui occhi era colpevole, anche lui, di non avere mantenuto le promesse fatte;

nei confronti di Giulio Andreotti, più volte presidente del Consiglio dei ministri, è stata pronunciata dalla Corte di Cassazione sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine al reato di concorso esterno in associazione mafiosa, commesso sino al 1980;

da rappresentanti delle istituzioni si diceva che la “mafia” non esistesse, che fosse soltanto una invenzione dei media, dimenticando volutamente le “giuliette” imbottite di tritolo, la prima guerra di mafia, scoppiata all’inizio degli anni ’60, che aveva insanguinato le strade di Palermo, il c.d. processo dei 114, la strage di Viale Lazio, il fallito “Golpe Borghese” e nonostante che, da un interrogatorio reso nel marzo 1973 da Leonardo Vitale, si fosse  venuti a conoscenza dell’organigramma delle “famiglie” mafiose di “cosa nostra” e dei nomi di “uomini d’onore”, anche eccellenti che, circa dieci anni dopo, Tommaso Buscetta avrebbe fatto a sua volta.

Ma Leonardo Vitale, il c.d. protopentito, non venne creduto, venne condannato e rinchiuso in un manicomio giudiziario mentre i soggetti, chiamati in correità, vennero quasi tutti assolti.

Ma, al suo rientro a Palermo, scontata la pena inflittagli, Leonardo Vitale venne ucciso con modalità proprie di una esecuzione mafiosa.

In questo contesto storico, dunque, Boris Giuliano ha svolto il suo difficile lavoro senza poter fare affidamento sul sostegno di una società civile non ancora avvertita e  consapevole del pericolo rappresentato da “Cosa nostra” e di una classe politica “distratta”, indifferente ed, in alcuni suoi esponenti, addirittura, collusa o connivente.

Il sacrificio di Boris Giuliano e di tanti altri uomini coraggiosi, il loro impegno civile, il loro senso del dovere, il loro spirito di servizio non sono rimasti lettera morta perché, nei primissimi anni ’80, altri uomini, altri fedeli servitori dello Stato hanno raccolto il loro testimone ed hanno intrapreso la prima, efficace e seria azione di contrasto a “cosa nostra” riuscendo nell’intento, grazie anche alla collaborazione di importanti “uomini d’onore“ ed all’impegno investigativo di appartenenti alle forze dell’ordine, a squarciare il velo che avviluppava la tremenda realtà del fenomeno mafioso.

E se oggi è possibile realisticamente sostenere che “cosa nostra” è alle corde, grazie ai numerosi successi conseguiti dallo Stato con l’azzeramento dei vertici dell’organizzazione, lo si deve all’impegno, all’intuito investigativo, al sacrificio di uomini coraggiosi come il dott. Boris Giuliano, un vero e proprio antesignano nella lotta, all’epoca impari, contro la mafia della quale aveva temuto non solo la pericolosa potenza “militare” ma anche il malefico potere di corrompere, inquinare, soffocare, infettare le componenti sane del tessuto socio-economico-imprenditoriale.

Noi tutti dobbiamo riconoscenza a questo valoroso poliziotto e non dobbiamo dimenticare il suo operato ed il sacrificio del bene supremo della vita.

Altrimenti, sarebbe come farlo morire una seconda volta

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